Approfondimento

Fallimento: come riconoscerlo e affrontarlo

Pubblicato il

17 ottobre 2025

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Il fallimento è una delle esperienze più universali e, allo stesso tempo, più difficili da accettare. Lo si associa alla perdita, al giudizio, all’idea di non essere stati all’altezza. 

Eppure, la ricerca scientifica ci suggerisce che dovremmo interpretare diversamente il “fallimento”: non come una deviazione dal percorso, ma come una fase necessaria dell’apprendimento e dell’adattamento umano. Comprendere cosa accade nel cervello e nella mente quando falliamo può aiutarci a riconoscere questa esperienza e ad affrontarla in modo più consapevole.

I benefici biologici del fallimento e le strategie per gestirne gli effetti

Uno studio pubblicato su Educational Psychology Review nel 2025 da Margulieux, Prather e Rahimi (“The Biological Benefits of Failure on Learning and Tools to Manage the Fallout”)   propone una lettura neuroscientifica del fallimento. Gli autori mostrano che, in ambito educativo, l’errore non è soltanto una battuta d’arresto: è una condizione che prepara il cervello a imparare attivando meccanismi neurochimici che favoriscono la memoria e la flessibilità cognitiva.

Ma se da un lato il fallimento può attivare processi utili all’apprendimento, dall’altro genera spesso risposte emotive e motivazionali negative, come senso di frustrazione, calo di fiducia e stress. Per questo, gli autori dedicano una parte della loro analisi agli strumenti che permettono di gestire gli effetti psicologici del fallimento, in modo da conservarne i benefici cognitivi.

Il primo è il modo in cui il fallimento viene interpretato: considerarlo parte naturale del processo di apprendimento, e non una prova di incapacità. Quando l’errore è percepito come una tappa del percorso, la motivazione tende a rimanere stabile e l’attenzione resta orientata al miglioramento, non alla colpa.

Un secondo elemento chiave è il sostegno esterno. Nei momenti di bassa motivazione, l’incoraggiamento e il riconoscimento da parte di insegnanti o colleghi possono compensare la perdita di fiducia e aiutare a mantenere costante l’impegno.

Un terzo strumento è la promozione di un atteggiamento di crescita (growth mindset): l’idea che le proprie capacità possano essere sviluppate attraverso l’esperienza. Questo atteggiamento riduce la percezione del fallimento come minaccia all’autostima e sostiene la motivazione nel lungo periodo.

Gli autori richiamano anche alcune pratiche operative: prevenire un’eccessiva concentrazione di insuccessi nelle prime fasi del percorso, quando la motivazione è più fragile; definire obiettivi intermedi raggiungibili; e creare ambienti di apprendimento caratterizzati da un clima positivo e supportivo. Tutti questi accorgimenti riducono la frustrazione e aiutano a mantenere un livello di stress funzionale all’apprendimento.

Infine, viene ricordato che lo stress prolungato può compromettere la memoria e la regolazione emotiva, mentre livelli moderati di attivazione favoriscono la concentrazione. L’obiettivo non è quindi eliminare del tutto lo stress, ma mantenerlo entro una soglia che stimoli senza sopraffare.

In sintesi, comprendere come il cervello reagisce al fallimento permette di progettare contesti formativi che integrano l’errore come parte del processo di crescita, riducendo gli effetti emotivi più dannosi e potenziando la capacità di apprendere da ciò che non funziona.

Come la paura di fallire condiziona la capacità di imparare dagli errori

Ma non tutti i fallimenti insegnano. In alcuni casi, la paura di fallire è così forte da impedire il processo di apprendimento. Uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology nel 2022 da Lin, Zhang e Wu (“Exploring the Influence of Failure Aversion on Learning from Project Failure”) indaga proprio questo meccanismo.

La ricerca, condotta su 774 dipendenti di team di ricerca e sviluppo in Cina, parte da una semplice domanda: perché alcune persone riescono a imparare dai propri errori, mentre altre si paralizzano? I risultati mostrano che la failure aversion – l’avversione o la paura del fallimento – ha un duplice effetto. Da un lato, può attivare una forma di coping focalizzato sulla perdita, cioè una strategia di fronteggiamento che parte dal riconoscimento del fallimento e dall’elaborazione di ciò che è andato perso – tempo, fiducia, opportunità, energie – ma con l’obiettivo di comprendere le cause dell’errore. Chi adotta questo atteggiamento non nega la delusione, ma la usa come base per analizzare in modo lucido cosa non ha funzionato e come migliorare in futuro. In questo senso, il fallimento diventa un’occasione di apprendimento: la persona impara a tollerare la frustrazione e a trasformarla in conoscenza.

Dall’altro lato, però, la stessa failure aversion può generare una risposta opposta, in cui il fallimento viene vissuto come perdita di valore personale. In questo caso la persona tende a identificarsi con l’errore. Questa interpretazione mina l’autostima e riduce la capacità di analizzare l’esperienza in modo costruttivo, portando a evitare il confronto con l’errore o a distorcere le cause per proteggersi dal giudizio.

Secondo Lin e colleghi, la differenza tra queste due vie – l’elaborazione attiva della perdita o la svalutazione di sé – determina la qualità dell’apprendimento successivo. Non è tanto la paura di fallire a bloccare la crescita, quanto il modo in cui quella paura viene gestita cognitivamente ed emotivamente.

Un fattore che può orientare l’esito di queste due strade è la cosiddetta learning goal orientation, cioè l’orientamento alla crescita e non alla performance. Chi mantiene una prospettiva di crescita tende a interpretare il fallimento come un’informazione utile, non come un giudizio sul proprio valore. Questa postura cognitiva permette di conservare la motivazione e la lucidità necessarie per analizzare l’esperienza e trarne insegnamento. Il messaggio che emerge dallo studio di Lin e colleghi è chiaro: non è tanto il fallimento in sé a determinare la crescita o la regressione, ma il significato che scegliamo di attribuirgli.

Costruire la resilienza dopo le difficoltà: fattori protettivi e interventi possibili

La ricerca sulla resilienza mostra che la capacità di rialzarsi dopo un fallimento non è innata, ma può essere sviluppata. Un’ampia revisione pubblicata nel 2024 su Frontiers in Psychiatry da Abate e colleghi (“Resilience after Adversity: An Umbrella Review of Adversity Protective Factors and Resilience-Promoting Interventions”) ha analizzato 44 studi internazionali, per un totale di oltre 550.000 partecipanti, per individuare i principali fattori che favoriscono la resilienza dopo eventi avversi.

I risultati mostrano che chi ha vissuto esperienze difficili nelle prime fasi della vita può sviluppare nel tempo una maggiore resilienza. Tra i fattori protettivi individuati spiccano il sostegno sociale (famiglia, amici, comunità), le capacità cognitive, il senso di appartenenza e di connessione alla propria comunità, una percezione positiva di sé, la partecipazione a pratiche religiose o spirituali e la capacità di autoregolazione emotiva e comportamentale.

La revisione evidenzia inoltre che interventi psicologici strutturati possono potenziare questa capacità adattiva. Tra i più efficaci figurano le terapie cognitivo-comportamentali (CBT), i protocolli basati sulla mindfulness e i programmi misti di allenamento alla resilienza, che combinano strategie diverse – dalla CBT alla mindfulness, fino ad attività di gruppo o training di autoregolazione emotiva. Secondo Abate e colleghi (2024), questi percorsi integrati hanno mostrato l’impatto più significativo sull’aumento della resilienza, proprio perché agiscono contemporaneamente sui piani cognitivo, emotivo e relazionale.

Nel complesso, i risultati suggeriscono che affrontare un fallimento non significa semplicemente “resistere”, ma ristrutturare la propria risposta interna: spostare l’attenzione dal danno subito alle risorse disponibili e trasformare l’esperienza negativa in un’occasione di adattamento psicologico.

È sempre sbagliato arrendersi?

Quante volte sentiamo dire “mai arrendersi”? Ma è sempre la strada giusta? In una società che celebra la perseveranza a ogni costo, una delle convinzioni più radicate è che non bisogna mai fermarsi. Ma la scienza mostra che, in molti casi, “lasciar andare” un obiettivo irrealistico è un modo intelligente di preservare il proprio benessere psicologico.

Uno studio pubblicato nel Self & Identity nel 2003 da Wrosch, Scheier, Carver e Schulz (“The Importance of Goal Disengagement in Adaptive Self-Regulation: When Giving Up Is Beneficial”) analizza proprio questo processo. I ricercatori mostrano che il fallimento non è solo una questione di perseveranza, ma anche di autoregolazione: saper distinguere quando continuare e quando disimpegnarsi.

La ricerca dimostra che chi riesce a interrompere la ricerca di obiettivi non più raggiungibili sperimenta livelli più bassi di stress, ansia e depressione, e una maggiore soddisfazione generale. In altre parole, la flessibilità cognitiva – la capacità di ridefinire ciò che si vuole quindi indirizzare l’energia verso mete più realistiche – è una forma di adattamento psicologico. Rinunciare, dunque, non significa sempre “fallire”, ma proteggersi.

Fallisci bene, fallisci meglio

Le ricerche più recenti offrono una visione radicalmente diversa del fallimento.
A livello biologico, il cervello lo riconosce come segnale di apprendimento.
A livello psicologico, il modo in cui lo interpretiamo ne determina l’impatto.
A livello sociale, la resilienza si costruisce attraverso relazioni e pratiche di cura.
E a livello comportamentale, il disimpegno da obiettivi irrealistici è una forma di intelligenza adattiva.

Riconoscere e affrontare il fallimento, quindi, non significa negarlo o romanticizzarlo, ma capire che fa parte di un ciclo fisiologico di apprendimento, adattamento e ridefinizione di sé. Fallire non è un segno di debolezza: è una forma di contatto con i propri limiti, e con la possibilità di superarli in modo più consapevole.

Hai qualche difficoltà a vivere “positivamente” l’esperienza del fallimento e adottare il giusto framing? Puoi provare a rivolgerti al tuo ateneo o conservatorio di appartenenza, che mette a disposizione degli spazi di ascolto con personale qualificato.

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