Intervista

Mindfulness all’università: perché può essere una risorsa concreta per studenti e comunità accademica

Pubblicato il

13 maggio 2025

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Negli ultimi anni, la mindfulness è uscita dai confini della pratica individuale per diventare oggetto di studio scientifico e strumento applicato anche nel mondo accademico. Ma come funziona davvero? E cosa può offrire agli studenti e alle università in un momento storico segnato da stress, precarietà e isolamento? 

Ne abbiamo parlato con il prof. Cristiano Crescentini, psicologo e psicoterapeuta, docente e ricercatore all’Università di Udine e referente del progetto Health Mode On per il Work Package 3 dedicato alla formazione. 

Con lui esploriamo i benefici dei protocolli mindfulness-based, le sfide della cultura del benessere e il ruolo chiave della psicologia clinica nel costruire ambienti universitari più umani e sostenibili.
 

Negli ultimi anni si è parlato molto dei benefici della mindfulness, anche nella ricerca scientifica. Ma cosa succede, davvero, quando pratichiamo mindfulness? Quali sono i meccanismi che la rendono così efficace?

La mindfulness lavora su più livelli: aiuta, innanzitutto, a diventare più consapevoli di ciò che accade dentro di noi. Più nel dettaglio, sappiamo che può migliorare la capacità di regolare l’attenzione, ridurre quei pensieri ricorrenti che spesso ci bloccano (la cosiddetta ruminazione) e aumentare la nostra abilità di osservare le emozioni senza lasciarci trascinare da reazioni impulsive. 

A livello del cervello, la ricerca ha mostrato cambiamenti funzionali in aree coinvolte nella regolazione emotiva, come la corteccia prefrontale e l’amigdala, e nella consapevolezza corporea, come l’insula. Tutto ciò può tradursi in maggiore stabilità emotiva e chiarezza mentale.
 

Se pensiamo agli studenti universitari, cosa ci dicono oggi le evidenze scientifiche sull’utilità della mindfulness per il loro benessere?

Gli studi in questo campo sono ormai numerosi, e ci dicono chiaramente che la mindfulness può aiutare a ridurre stress, ansia e sintomi depressivi tra gli studenti. Ma non solo: può migliorare l’attenzione, aumentare la resilienza e contribuire a una migliore qualità della vita. 

Una cosa interessante è che questi interventi funzionano anche se proposti online, magari in modalità compatibili con i tempi dell’università. Questo li rende accessibili a una platea ampia, anche a chi ha poco tempo o vive lontano dal campus.
 

In una vita accademica sempre più frenetica e competitiva, qual è secondo lei il valore aggiunto della mindfulness? Come può aiutarci a ritrovare un po' di equilibrio?

La mindfulness ci offre un piccolo ma potente spazio di pausa. È uno strumento per rimanere presenti in ciò che facciamo, senza essere travolti dal multitasking o dalla pressione della performance. Ci aiuta a non identificarci troppo con il risultato, a restare radicati anche nei momenti più intensi. Questo può fare la differenza, ad esempio, durante gli esami o le scadenze importanti.
 

E oltre all’impatto personale, che effetto può avere la mindfulness sul modo in cui stiamo insieme in università? Può cambiare anche la qualità delle relazioni?

Sì, decisamente. Quando la mindfulness è praticata in gruppo, aiuta a sviluppare empatia, capacità di ascolto, e a ridurre i giudizi automatici. Tutti questi aspetti rendono le relazioni più autentiche, meno conflittuali. Introdurre questo approccio anche a livello organizzativo può avere un impatto positivo sul clima complessivo dell’università, promuovendo rispetto, collaborazione e benessere condiviso.
 

Parlare di benessere significa anche parlare di disagio. Quanto conta il modo in cui ne parliamo? E che ruolo può giocare la psicologia clinica nel contrastare stigma e solitudine?

Conta moltissimo. Il linguaggio che usiamo può aiutare ad aprire o chiudere spazi. Parlare del disagio psicologico in modo non giudicante, aperto, ma anche informato, può rendere più facile chiedere aiuto. 

La psicologia clinica può contribuire molto in questo, ad esempio creando spazi sicuri e accessibili, promuovendo la prevenzione, aiutando le persone a non sentirsi sole. Gli sportelli psicologici o i gruppi di sostegno tematici vanno esattamente in questa direzione.
 

L’Università di Udine è partner attivo del WP3 di Health Mode On, dedicato alla formazione. Ci racconta cosa state facendo concretamente?

In continuità con il lavoro degli ultimi anni, stiamo portando avanti moduli formativi basati sulla mindfulness, pensati per gli studenti. Inoltre, grazie al progetto PROBEN, siamo quasi pronti a lanciare un nuovo percorso online, accessibile in modalità auto-aiuto, dedicato alla promozione del benessere psicologico e della resilienza. L’idea è offrire strumenti pratici, che possano essere integrati nella vita universitaria quotidiana.
 

Secondo lei, oggi qual è la sfida più urgente e, allo stesso tempo, più promettente nel promuovere il benessere psicologico nelle università italiane?

La vera sfida è far sì che il benessere non sia visto solo come un intervento di emergenza, ma venga riconosciuto come parte integrante della cultura accademica. Le università non devono solo formare professionisti preparati, ma anche persone resilienti, consapevoli e in equilibrio. La cosa positiva è che oggi c'è più attenzione su questi temi, e una maggiore disponibilità a costruire insieme un ambiente più inclusivo, sostenibile e umano.

Progetto selezionato nell'ambito dei due avvisi PRO-BEN 1 e PRO-BEN 2 del Ministero dell'Università e della Ricerca (MUR) per la concessione di finanziamenti volti alla promozione del benessere psicofisico e al contrasto del disagio psicologico ed emotivo tra gli studenti.

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